Il cambiamento del Terzo Settore

Dal contributo di Stefano Zamagni, membro del Comitato scientifico del Salone della CSR, per il libro Le rotte della sostenibilità (editore EGEA) disponibile a partire dal 2 ottobre 2018.

 

Il tema del cambiamento è oggi tornato al centro del dibattito culturale e scientifico, oltre che apparire in cima all’agenda dei vari policy makers. È agevole darsene conto solo che si consideri che è in atto una nuova “grande trasformazione” di tipo polanyiano che sta radicalmente modificando non solamente il modo di produzione, ma anche le relazioni sociali e la stessa matrice culturale della nostra società.

Karl Polanyi (1944) si occupò magistralmente della prima grande trasformazione, quella associata alle prime due rivoluzioni industriali. L’attuale seconda grande trasformazione è invece connessa all’affermazione delle tecnologie convergenti, quelle tipiche della terza e quarta rivoluzione industriale. Non sappiamo ancora come le tecnologie digitali e la cultura che le governa modificheranno l’essenza del capitalismo. Sappiamo però, perché già sotto i nostri occhi, che i cambiamenti sul senso del lavoro umano, sul rapporto tra mercato e democrazia, sul significato etico dell’agire economico, sono di vasta portata.
In questa breve nota, soffermo l’attenzione su un particolare cambiamento, quello riguardante il modo di concepire la natura specifica del terzo settore nell’attuale grande trasformazione. Per cogliere lo spessore culturale e politico della posta in gioco, richiamo alla memoria le due posizioni principali finora dominanti nel modo di configurare il ruolo specifico degli enti di Terzo Settore. Per un verso, quella di coloro che vedono tali enti come l’eccezione alla regola rappresentata dalla centralità delle organizzazioni for profit e degli enti pubblici. (…) Per l’altro verso, la posizione di chi considera il Terzo Settore come elemento di disturbo o di delegittimazione nei confronti dell’intervento pubblico. (…)
Nonostante le differenze, entrambe le posizioni celano una comune aporia. Chi si riconosce nella posizione “neo-liberista” vede nel Terzo Settore un modo per supportare il modello del “conservatorismo compassionevole” assicurando livelli minimi di servizi sociali ai segmenti deboli della popolazione (…). Ma ciò genera un paradosso: come si può pensare di incoraggiare la disposizione donativa presso i cittadini quando la regolazione sociale attraverso il mercato viene basata sul principio dell’interesse proprio e sulla razionalità dell’homo oeconomicus? (…)
Anche la concezione neo-statalista genera un paradosso analogo a quello precedente, sia pure simmetrico. Ritenendo di poter imporre per via esclusivamente legislativa, cioè di comando, l’attuazione dei diritti di cittadinanza, tale concezione spiazza la cultura del dono come gratuità, negando, a livello di discorso pubblico, ogni valenza al principio di fraternità. (…)
È veramente singolare che non ci si renda conto che entrambe le posizioni finiscono col relegare valori come gratuità e reciprocità alla sfera privata, espellendoli da quella pubblica. La posizione neo-liberista perché ritiene che all’economia bastino i contratti, gli incentivi e ben definite regole del gioco. L’altra posizione, invece, perché ritiene che per la solidarietà basti lo Stato, il quale può appellarsi alla giustizia, non certo alla fraternità.
La modernità, nella sua furia costruttivista, si è adoperata per neutralizzare la terziarietà: tutto deve rientrare o nello Stato o nel Mercato e a seconda delle simpatie politico-ideologiche si doveva puntare sull’uno o sull’altro pilastro. Ebbene, il cambiamento oggi necessario è quello di rompere questo schema, ormai datato. Gli enti del terzo settore non vanno più considerati come soggetti per la produzione di quei beni e servizi che né lo Stato né il Mercato hanno interesse oppure la capacità di produrre (i cosiddetti fallimenti del mercato e dello Stato), ma come una specifica forma di governance basata sulla cooperazione e sulla reciprocità. Ciò significa che il Terzo Settore non può esimersi dal porre in cima ai propri obiettivi la rigenerazione della comunità. La strategia da perseguire è allora quella di dare ali a pratiche di organizzazione della comunità (community organizing). È questo un modo di impegno politico complementare – e non alternativo, si badi – a quello tradizionale basato sui partiti, un modo che consente alle persone, la cui voce mai verrebbe udita, di contribuire a dilatare il processo di inclusione sia sociale sia economica. Quella dell’organizzazione della comunità è una strategia né meramente rivendicativa né tesa a creare movimenti di protesta. Piuttosto, è una strategia la cui mira è quella di attuare il principio di sussidiarietà circolare – articolando in modo nuovo le relazioni tra Stato, Mercato, Comunità, il cosiddetto modello tripolare di ordine sociale che accanto al privato e al pubblico pone il civile.